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Alla luce dell'ascesa delle forze euro-scettiche che minacciano la stabilità dell'Unione, un'analisi di Hannah Arendt sul senso delle rivoluzioni in senso assoluto.

Giornali e sondaggi non fanno che informarci dell'ascesa delle forze euro-scettiche nelle preferenze degli elettori, tanto da minacciare la stessa stabilità dell'eurozona se poi le previsioni dovessero trovare conferma con il voto del 25 maggio.

Secondo infatti il tink tank Open Europe, un'organizzazione indipendente no profit con sede a Londra, Bruxelles e Berlino a favore della promozione delle idee di riforma economica e politica dell'Unione europea, i partiti della protesta anti-Ue avrebbero già raggiunto il 31% dei consensi; in termini di seggi, i partiti della protesta ottengono nel nuovo Europarlamento già 218 seggi su 751, con un aumento di 54 seggi rispetto alla precedente rappresentanza.

Vien da sé che se le attese dovessero confermare le previsioni, stando alla propaganda dei gruppi europei più importanti che sostengono la fine immediata dell'esperienza della moneta unica, così come l'abrogazione degli accordi di Schengen, già in parte negati ed indeboliti dallo storico esito del referendum che si è consumato solo qualche settimana fa in Svizzera, che ha di fatto chiuso le frontiere ai lavoratori stranieri, quali sono il Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, la Lega Nord in Italia ed in parte il M5S, partiti nazionalisti e di estrema destra come nell'Olanda di Geert Wilders, leader del Partito per la Libertà (PVV), che sebbene sia stato di recente accusato dal Segretario Generale dell'ONU, Ban Ki-moon, di essere 'offensivo ed islamafobico', viene dato nei sondaggi al 43% del consenso popolare, l'unità dell'Europa è a forte rischio ed un ritorno ai vecchi nazionalismi è quanto mai concreto.

Vale la pena, dunque, guardare a chi più di ogni altro ha impegnato la propria vita nello studio dei fenomeni politici contemporanei quale fu Hannah Arendt, filosofo di origine ebraica, tragicamente scampato agli orrori del nazismo, discepolo di Martin Heidegger con il quale instaurò un rapporto speciale, anche d'amore, nonostante la sua adesione al partito nazista, che certamente in una situazione come quella attuale, nella quale gli estremismi sembrano avere la meglio e il richiamo alla disunione costituisce una panacea a tutti mali, avrebbe storto il naso richiamando a fare attenzione a ciò che lei avrebbe chiamato 'rivoluzioni assolute'.

Fedele al suo pragmatismo, vero e proprio strumento di lavoro per il filosofo di Linden, il sobborgo alle porte di Hannover dove nacque nel 1906, Hannah Arendt avrebbe spiegato che quando ad un potere che si presuppone assoluto, quale fu ad esempio la monarchia assoluta al tempo della rivoluzione francese, così come oggi la perentorietà dei vincoli degli accordi economici di Bruxelles, si contrappone una forza essa stessa assoluta il cui unico obiettivo è quindi il rovesciamento assoluto dell'ordine, questo è ciò che il filosofo della Banalità del male avrebbe indicato come assolutismo della rivoluzione o rivoluzione assoluta.

Vien da sé che un siffatto modo di procedere è esso stesso causa di nuovo male, o meglio, è la continuazione stessa del male, in quanto non viene modificato con l'atto rivoluzionario l'approccio assolutista che si ha al potere.

E' una degenerazione che si è avuto modo di esperire nella prassi politica contemporanea già più volte, e che per il filosofo continuerà a ripetersi finchè non si porrà rimedio all'errore concettuale che ne è alla fonte, a suo dire, da far derivare dal concetto di volontà generale che fu di Rousseau.

Scrive Hannah Arendt in Sulla Rivoluzione, saggio del 1963, a conti fatti il contributo teoretico, storico e fenomenologico più importante che la filosofia contemporanea abbia sul concetto e sulle dinamiche della rivoluzione, “Il concetto di Rousseau di una volontà generale che ispirasse e dirigesse la nazione, come se non fosse più composta da una moltitudine di uomini, ma fosse veramente una sola persona, divenne assiomatica per tutti i partiti e le fazioni della rivoluzione francese, dal momento che era realmente il sostituto teoretico della volontà sovrana di un monarca assoluto.

In pratica, nonostante la contemporaneità, con la storpiatura che si è avuta dell'idea di volontà che il filosofo ginevrino teorizzò nel Contratto Sociale, la classe dirigente ancora oggi reitera il principio secolarizzato di volontà in senso assolutista, asservendolo a sé stessa. Data la propaganda di questi tempi, non si intravede all'orizzonte un cambiamento di rotta.

All'opposto della rivoluzione in senso assoluto, spiega il filosofo, c'è il modello della rivoluzione americana interpretata dalla stessa alla stregua infatti di un vero inizio, perchè differentemente dalle pratiche delle rivoluzioni assolutiste che si susseguono senza alcuna vera soluzione di continuità, mantenendo integro ed immutato l'approccio assolutista al potere, questa nasce dall'esperienza diretta delle piccole municipalità, così come storicamente avvenne con la rivoluzione dell'Indipendenza Americana ( allorchè i primi coloni si proclamarono infatti corpi politici per autogovernarsi).

Ne consegue che una siffatta prassi non nasce da idiomi assolutisti, ma nasce dal bisogno contingente e reale del corpo politico di autogovernarsi, l'inizio non è quindi né ideologico né ideologizzato ma mantiene integro il vincolo della libertà di ognuno, ciò che fa del modello rivoluzionario americano agli occhi del filosofo il modello vincente e da seguire per ogni futuro della rivoluzione, essendo quello più autenticamente politico, intendendo con una tale parola il suo contenuto più profondo, ovvero quello di prassi, di essere libertà autenticamente progettante.

La diffidenza di Hannah Arendt per gli assolutismi della rivoluzione
Tag(s) : #filosofia, #democrazia
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