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Oggi è il Primo Maggio, festa dei lavoratori, una festa ormai ridotta ad essere solo un feticcio.

Se c'è una ragione per la quale le masse ai giorni nostri tendono a non credere più a niente, è probabile che ciò derivi dal feticismo a cui sono relegati ormai i valori autentici di una ricorrenza. Delle feste ormai la cultura di massa coglie solo il suo feticcio, il suo essere un totem senza fedeli, ed ecco che il Natale diviene la festa dei regali, la Pasqua della gita fuori porta, e il Primo maggio l'occasione per un concerto gratuito in una delle piazze più belle d'Italia.

Non sorprende più infatti associare il valore spirituale di una qualsiasi ricorrenza con il suo valore di mercato, conviene a tutti, consumatore compreso che delle ricorrenze si colga per l'appunto il suo feticcio; ma se ciò che si riduce ad esser cosa in sé statica vive solo della sua carica simbolica ed idealizzata, sopravvive anche il suo senso? C'è ancora un accordo, un legame, tra il simbolo e il reale?

Difficile è rispondere dei simboli della religiosità, certamente più semplice a guardare alla simbologia della laicità, della cd. società civile, così civile da rendere persino il suo significato un altra rappresentazione dei feticci su cui sopravvive l'ordine, consapevole che il culto feticista tornerà infatti utile. Dunque, buon Primo Maggio.

E' giusto chiedersi, infatti, qual è il senso oggi di questa festa? Il concerto? Un giorno di riposo pagato? Difronte alla realtà di oggi parlare di festa dei lavoratori appare persino un affronto del calendario, difronte al numero dei disoccupati, dei precari, dei suicidi, dei poveri, delle morti bianche, del lavoro nero, numeri paragonabili ad un'economia di guerra, come si fa infatti a parlare di festa dei lavoratori se il lavoro non c'è? E come si fa a festeggiare una ricorrenza nata da una tragedia, quando anche l'articolo 18 della Costituzione se ne va in soffitta?

E come si fa a festeggiare quando a due generazioni è stato negato un domani sia nei termini di conduzione della propria vita, sia nei termini di pienezza dei diritti?

Difronte infatti ad un'economia nella quale l'istituto non regolamentato della delocalizzazione delle aziende è divenuto la panacea di tutti i mali, vedi la cara Fiat che in barba ad ogni crescita del fatturato e agli aiuti ricevuti negli anni dallo Stato, ha pensato bene di trasferirsi in altri lidi finanziariamente più convenienti, lasciando così a casa migliaia di famiglie, chi ha il coraggio di parlare ancora di una festa del Lavoro, quando il Lavoro non ha più alcuna sostanza, ma è solo contingenza? Come si fa a dire che sopravvive ancora il senso del Primo Maggio quando l'attuale ministro dello Sviluppo Economico della Repubblica, il ministro Federica Guidi, ex presidente dei giovani imprenditori di Confindustria, è autrice lei stessa di un trasferimento della produzione delle aziende di famiglia in Croazia, Romania e persino nell'esotica India, giustificando il tutto, come lei stessa afferma, come un bisogno di 'internalizzazione'? Verrebbe da ridere, infatti, ad immaginare cosa significa internalizzazione se si pensa ad un uomo come Trotski, un suggerimento che l'attuale ministro dello Sviluppo dovrebbe cogliere prima di rilasciare dichiarazioni sul bisogno di internazionalizzare le aziende di famiglia.

D'altronde, forse, il ministro non ha neppure tutti i torti; se c'è infatti un aspetto che con la globalizzazione intesa e forzata in senso economicistico accomuna proprio tutti, è infatti la perdita dei vecchi valori degli Stati nazionali a favore della genesi di una società transnazionale con la quale anche i valori tradizionali che reggevano le 'vecchie' economie sono del tutto relativizzati, se non cancellati, a favore di una società nella quale l'autorità non è più esercitata dallo Stato, ma delle imprese.

Vien da sè che in un contesto nel quale un proprietario ha facoltà piena di traslocare le proprie aziende senza che a questo poi segua un comportamento etico né da parte del singolo, né da parte delle istituzioni, artefici e complici dello stato d'essere non fosse per la totale assenza di regolamentazione a tal riguardo, ciò che si realizza, non rappresenta di certo nè un'iperbole né una provocazione, è un latente schiavismo.

Sarebbe superfluo riportare tutti gli esempi della cronaca degli ultimi periodi a sostegno di ciò, d'altronde nessuno può scordarsi della recente delocalizzazione di Elettrolux, o di Alcoa, della Indesit, Fabriano,né della proposta solo di ieri da parte del gruppo di Abu Dhabi, la compagnia aerea Etihad, che per l'acquisizione di Alitalia ha pensato bene di inferire colpi d'ascia agli stipendi dei lavoratori, nonché un cospicua riduzione del personale. Questa è la condizione contingente nella quale si festeggia una ricorrenza del Calendario, certamente valida per un po' di riposo, per chi può naturalmente permetterselo, e per qualche salto in Piazza San Giovanni a Roma

Il vero dramma infatti non è la condizione contingente della crisi economica, seppur gravissima, tale appunto da essere definita alla stregua di un'economia di guerra, ma è il tessuto in cui questa si manifesta, a ben vedere il vero problema da risolvere, un tessuto nel quale si ha infatti la percezione piena ed evidente dello svuotamento della condizione morale del lavoro, e quindi anche dei diritti fondamentali che per essenza ad esso si legano, per essere sostituita dal culto del profitto, ed oggi del feticcio. In un contesto del genere, parlare di una festa del Lavoro appare infatti una provocazione, o forse è solo un modo per meglio rappresentarne la sua assenza, sia nei termini propriamente contingenti, sia e sopratutto nei termini inalienabili di un'etica del lavoro.

Dunque a parte le luci della festa, ne rimane in realtà solo il feticcio.

Primo Maggio, festa del feticcio
Tag(s) : #etica, #filosofia, #economia, #storia, #democrazia, #denunce
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